Linux@Business – Liberi di Cambiare
Linux@Business – Liberi di Cambiare
Qualche anno fa una banca d’affari mi chiese di preparare per un loro convegno un intervento sul Free Software e sull’Open Source Software, collettivamente identificati con l’acronimo FOSS (Free & Open Source Software). Fu quella la prima occasione in cui cominciai a usare l’acronimo TAO (Total Account Ownership) per esprimere in forma contratta un concetto ampiamente diffuso nel mondo ICT: la dipendenza dei clienti dai fornitori di tecnologia.
Successivamente mi capitò di confrontarmi su questo tema con gli amici di equiliber.org, tra i quali Francesco Sacco, Professore di Strategia e Politica Aziendale dell’Università Bocconi di Milano. Con il suo e altri contributi arrivammo all’ideazione di una metodologia, denominata TAO-Index, che consente di quantificare in un indice, il cui valore è compreso tra 0 e 1, proprio la dipendenza dei clienti dai fornitori di tecnologia ICT. Un valore prossimo allo zero esprime un basso livello di dipendenza, mentre un livello prossimo all’uno esprime, evidentemente, un alto livello di dipendenza. Si noti che il TAO-Index ha per complemento quello che chiamerei Liberty-Index (indice di libertà), se non fosse che l’uso del temine libertà nei contesti tecnologici rischia di apparire presuntuoso se non addirittura offensivo per tutti coloro che dell’assenza di libertà, nel senso più ampio e umano del termine, hanno sofferto in passato o soffrono tutt’oggi. Ma perché ritengo che il concetto di TAO-Index sia tanto importante nella relazione tra clienti e fornitori di tecnologia? Uno spunto viene dall’amico Luigi Bandini Buti che, in un suo scritto incluso nel volume dedicato al Premio SMAU Industrial Design 2004, scrivendo sapientemente di ergonomia si pone una domanda:
L’utente del prodotto informatico è sempre più vasto e imprevedibile, nel senso che se uno ha acquistato un motorino, quello usa ed apprende ad usare, fino a che non lo cambierà. Ma con i sistemi informatici, possiamo cambiare fornitore rapidamente, improvvisamente e casualmente?
Teniamola a mente questa domanda, perché più avanti ci tornerà utile. Chi si occupa di tecnologia, soprattutto coloro che hanno responsabilità decisionali negli acquisti, si è abituato negli ultimi anni ad alcuni strumenti di valutazione dei prodotti del mercato ICT: il cosiddetto TCO (Total Cost of Ownership), corredato o meno di ROI (Return On Investment) e i cosiddetti Quadranti Magici. Pur non volendo entrare nei particolari, si sappia che il concetto di TCO fu inventato dalla Gartner Group a metà degli anni ’90 e divenne famoso nel mondo ICT negli anni successivi grazie alle dispute con Arthur Andersen sul TCO delle piattaforme Microsoft Windows. Anche lo strumento dei Quadranti Magici è stato inventato da Gartner Group e la sua diffusione in questi ultimi anni nel mercato ICT sta raggiungendo quello del TCO, di cui è complementare. Detto in termini molto naive, il TCO serve a stimare nel medio o lungo periodo la somma dei costi, visibili e nascosti, interni ed esterni, dei prodotti del mercato ICT. Viceversa, i Quadranti Magici servono per visualizzare graficamente il posizionamento di quegli stessi prodotti in termini di visione verso il futuro e di capacità d’implementare quella visione. Ho l’impressione che tra i più sofisticati venditori di prodotti e soluzioni per il mercato ICT, non vi sia nessuno disposto a presentarsi da un cliente importante senza disporre di un report che dimostri che il TCO del proprio prodotto è minore del TCO di tutti i prodotti della concorrenza e, contemporaneamente, di un report che dimostri come il posizionamento nel Quadrante Magico di quello stesso prodotto sia in alto a destra, ossia nel quadrante dei leader.
Detto in termini ancora più ingenui, il report sul TCO serve al venditore per convincere il cliente che il proprio prodotto è il più economico nel tempo, anche laddove il costo di investimento iniziale risultasse superiore rispetto ai prodotti della concorrenza. Il report del Quadrante Magico, invece, serve al venditore per convincere il cliente che il proprio prodotto è il migliore, sia in termini di visione verso il futuro che in termini di capacità di implementare quella visione. Quanta grazia in questi strumenti. Peccato che sia tutta a vantaggio di chi vende e non di chi compra. C’è chi sostiene, e io sono tra questi, che i report sui TCO, anche quelli indipendenti, siano attendibili quanto i libri contabili della Enron. E che dire dei Quadranti Magici? Non molto tempo fa, la stessa banca d’affari che mi aveva chiamato a intervenire sul FOSS qualche anno prima, mi richiamò per intervenire a un convegno sugli open standard (standard aperti) e la system integration. In quel congresso intervenirono alcuni dei più famosi produttori di piattaforme software. Quasi tutti costoro avevano nelle proprie presentazioni una bella slide che mostrava il posizionamento dei loro prodotti nel Quadrante Magico: erano tutti leader. Vedere tanti Quadranti Magici riferiti a vendor i cui prodotti appartengo alla stessa famiglia e non scovare uno solo Quadrante Magico coerente con un altro fu motivo, tra gli invitati, di ilarità tanto sincera quanto, per ovvi motivi di buona educazione, celata. So benissimo che le società di analisi di mercato hanno una quantità inesauribile di argomentazioni per giustificare quella che ai loro occhi è un’incoerenza solo apparente dei Quadranti Magici. Per esempio vi racconterebbero che la popolazione intervistata per la realizzazione dei vari quadranti è differente per ognuno di essi e che, conseguentemente, non sono confrontabili, quindi le accuse di incoerenza sono logicamente prive di fondamento. Se volete credere a simili sofismi, accomodatevi, ma poi non vi lamentate del fatto che non riusciate più a liberarvi di un fornitore di tecnologia perché la sostituzione dei suoi prodotti vi costerebbe troppo.
In modo del tutto casuale, il mio intervento a quello stesso consesso si intitolava “Open Standard, Sostituibilità e Open Source” e introduceva i principi della metodologia TAO-Index, esplicitando sin dall’inizio l’intenzione di prendere il toro (i fornitori di tecnologia) per le corna. Il principio fondante della metodologia TAO-Index è molto semplice. Prodotti, soluzioni e servizi facilmente sostituibili con prodotti e soluzioni della concorrenza sono per definizione inseriti in un mercato fortemente competitivo, a tutto vantaggio della domanda. Affinché siano facilmente sostituibili, è necessario che implementino i cosiddetti open standard (standard aperti) ossia quegli standard le cui specifiche, oltre ad essere documentate pubblicamente, sono anche liberamente implementabili. Per converso, l’adozione di prodotti e soluzioni che implementano formati e protocolli proprietari (specifiche non documentate oppure non liberamente implementabili) aumenta il TAO-Index, proprio perché formati e protocolli proprietari vincolano il futuro e in particolare la libertà del cliente, riportando il pensiero dell’amico ergonomo, di cambiare fornitore rapidamente, improvvisamente e casualmente.
Ma perché vincolano questa libertà? La prima e più ovvia risposta è una quasi-tautologia. Se i formati e i protocolli adottati da una soluzione proprietaria sono a loro volta proprietari, allora non sono compatibili con quelli della concorrenza. Gli effetti dell’eventuale cambiamento verso soluzioni alternative si propagano in più direzioni e dimensioni e, guarda caso, non c’è TCO, ROI o Quadrante Magico che vi parli di questi effetti e tanto meno dei costi associati di sostituzione. Ma non è tutto. Nell’era della comunicazione il valore di un prodotto o di una soluzione risiede anche e soprattutto dalla sua diffusione sul mercato. Chiamiamo questo valore aggiunto prodotto dalla diffusione net-effect (effetto rete). Proviamo a esemplificarlo con un caso ipotetico dichiarando, come nei titoli di coda dei film, che ogni riferimento a cose, fatti o persone realmente esistenti è del tutto casuale. Si supponga che non esistano un formato e un protocollo open per la posta elettronica. Supponiamo anche che ci siano più produttori di client e di server di posta elettronica, ognuno dei quali implementa formati e protocolli proprietari e chiusi. Il client di ogni produttore comunica solo con il corrispondente server e viceversa. Verrebbe quasi da chiedersi chi sia il legittimo proprietario dei contenuti delle email: chi le scrive o chi vende la licenza d’uso del software utilizzato per scriverle, per spedirle e per riceverle? Cosa accade, inoltre, nel caso in cui uno dei produttori, anche sopportando o persino supportando la pirateria dei propri prodotti, ottenga una quota dominante del mercato delle soluzioni di posta elettronica? Il formato e il protocollo della soluzione diventerebbero, ipso facto, standard di riferimento del mercato. Il valore della soluzione baciata dal net-effect è incrementato dal fatto che chi l’acquista potrebbe scambiare email con un numero molto più alto di utenti rispetto alle soluzione dei concorrenti. A lungo andare la diffusione del prodotto otterrebbe quote di mercato bulgare e la concorrenza, grazie all’innalzamento di una barriera di ingresso pressoché invalicabile verrebbe annichilita. La società produttrice, ormai monopolista, comincerebbe a sostenere anche le più strampalate leggi anti-pirateria e non avrebbe più alcun interesse all’innovazione tecnologica del proprio prodotto, essendo quest’ultimo pressoché inattaccabile. Immaginate poi che il neo monopolista della soluzione di posta elettronica sia anche il produttore di prodotti e/o soluzioni di firma digitale per le email. Il monopolio ottenuto nel mercato delle soluzioni di posta elettronica gli faciliterebbe enormemente l’estensione del proprio monopolio anche in mercati contigui a quello originario. Pur fermandosi a questo punto della sceneggiatura, dovrebbe risultare lampante che in simili contesti la relazione cliente/fornitore è decisamente a vantaggio del fornitore monopolista.
Adesso si provi a immaginare uno scenario in cui i clienti adottino prodotti e soluzioni ICT che implementano open standard. I prodotti dei fornitori, oltre a garantire livelli interoperabilità molto elevati, sarebbero facilmente sostituibili tra loro. Per esempio, potrei cambiare il mio client di posta senza propagare il cambiamento sul sistema operativo che lo ospita e senza sostituire il mail server. Anche l’eventuale modulo per la gestione delle firme digitali rimarrebbe lo stesso. Ma potrei anche fare viceversa, ossia sostituire solo il software del mail server senza neppure toccare i client installati. I margini di libertà aumentano e, conseguentemente, diminuiscono i costi dei prodotti. Anche ammettendo che i calcoli dei report dei TCO realizzati dalle aziende di analisi del mercato ICT fossero più attendibili e veritieri di quanto non siano, l’adozione di un approccio di acquisto orientato a soluzioni che implementano open standard abbatte il TAO-Index e quindi garantisce condizioni medie di mercato ottimali per i clienti di tecnologia ICT.
Sono però in molti a sostenere, e non gli si può dare sempre torto, che i processi di definizione degli open standard sono molto spesso lunghi e che, a volte, ci sono più open standard tra cui scegliere per la stessa famiglia di formati e protocolli. Chi ha avuto la ventura di partecipare in ruolo attivo a uno di questi processi di standardizzazione conosce anche le stressanti negoziazioni e il numero di compromessi che si devono sopportare. Inoltre, alcune aziende, pur essendo sponsor degli organismi di definizione degli standard, adottano comportamenti ostruzionisti atti a ritardare o addirittura a fare fallire l’iniziativa di standardizzazione di cui fanno parte: buon viso e cattivo gioco.
L’alternativa sarebbe di lasciare libero campo ai monopolisti, ma il danno subito dai clienti sarebbe comunque maggiore. Tanto vale scegliere il minore dei mali, ossia i prodotti che implementano gli open standard. Se poi il processo e le regole di partecipazione alla definizione di tali standard garantiscono la neutralità rispetto ai produttori che li implementano e la protezione da eventuali comportamenti predatori di alcuni di loro, tanto meglio.
Un secondo argomento citato dai detrattori degli open standard punta al cuore del mercato ICT: gli open standard rallenterebbero l’innovazione. Di simili affermazioni e, detto di sfuggita, anche di quelle relative alla brevettabilità del software come incentivazione all’innovazione tecnologica, non ho ancora trovato alcuna motivazione documentata o quantomeno documentabile. Mi sembra più verosimile che in presenza di più produttori che implementano uno stesso open standard, la differenziazione rispetto alla concorrenza possa avvenire solo attraverso quattro strumenti: il prezzo, la qualità del prodotto, il contenuto innovativo e la qualità dei servizi associati al prodotto.
E’ a questo punto che la convergenza tra FOSS e open standard produce effetti dirompenti. L’implementazione FOSS di open standard rimuove almeno una delle leve competitive dei fornitori di software proprietario: il prezzo. Sono in molti a ritenere che la convergenza tra FOSS e open standard sottragga ai prodotti proprietari, grazie al tipico processo di sviluppo distribuito del FOSS, anche la leva della qualità del prodotto. Le generalizzazioni in questi casi sono sempre pericolose. Affermando che il software FOSS è, per caratteristiche intrinseche, qualitativamente superiore al software proprietario, ci si espone a critiche. Meno attaccabile, invece, è l’affermazione che il software FOSS che implementa un determinato open standard possa indebolire significativamente la leva della qualità dei corrispondenti software proprietari. Tolto il prezzo e indebolita la leva della qualità, rimangono da discutere la qualità dei servizi e i contenuti innovativi.
Per quanto riguarda la qualità dei servizi associati ai prodotti, si tenga presente che il FOSS rompe quello che appare essere una sorta di monopolio naturale: quello delle licenze di manutenzione e supporto.
Quando si compra un software proprietario in genere si acquistano la licenza d’uso, che è un costo di investimento, e la licenza di manutenzione e supporto, che è un costo operativo. La licenza di manutenzione e supporto si può acquistare solamente dal produttore del corrispondente software del quale si acquista la licenza d’uso. Nei paesi importatori di prodotti software quali l’Italia, le filiali locali dei produttori di software sono poco più di agenzie commerciali e la qualità dei servizi di manutenzione e supporto è spesso molto scarsa per il semplice motivo che il personale locale non partecipa all’engineering dei prodotti.
Viceversa, con il software FOSS, disponendo dei sorgenti e potendo partecipare attivamente anche all’engineering dei prodotti, chiunque sul mercato locale potrebbe offrire i servizi di manutenzione e supporto. Il mercato diventerebbe più competitivo e la qualità dei servizi sarebbe migliore. La terza arma a disposizione dei produttori di software proprietario si trasforma così in un’arma a favore del FOSS.
Rimane solamente da discutere l’argomento dei contenuti innovativi. Se anche fosse vero, cosa che non è, che il FOSS non produce innovazione tecnologica, la convergenza tra FOSS e open standard sollecita i produttori di software proprietario, se non vogliono scomparire dal mercato, a produrre costantemente innovazione tecnologia. Nessun imprenditore dell’industria del software potrà più permettersi, una volta baciato dal net-effect, di decidere prezzi, qualità e contenuto innovativo dei propri prodotti. Perché? Mi verrebbe da dire che il cliente sarebbe disposto a pagare, nei prodotti proprietari, solo il differenziale rispetto ai corrispondenti prodotti FOSS, quindi o c’è del valore aggiunto, oppure nessuno li acquista. Però attenzione: i software vendor sono molti abili nel camuffare le estensioni proprietarie degli open standard come innovazioni tecnologiche ben sapendo che, proprio grazie a tali estensioni, sottraggono al futuro dei propri clienti la libertà di cambiare fornitore rapidamente, improvvisamente e casualmente: una sorta di ergastolo tecnologico.