Elogio al Non-Ware
Elogio al Non-Ware
C’è una risorsa per lo sviluppo delle nuove tecnologie che in Italia abbonda: l’esperienza e la conoscenza. Una materia prima di gran valore ma troppo spesso trascurata.
Difficoltà economiche e “finanza creativa” mettono a dura prova la fiducia nell’informatica come comparto credibile. Per ricreare un rapporto di fiducia e di qualità apprezzata, riconosciuta e quindi remunerata equamente dal mercato, bisogna ritrovare una condizione di “normalità” in cui crescita e sviluppo tengano il passo con la capacità degli uomini e delle organizzazioni di comprendere e governare il cambiamento. Riportare l’attenzione sulla funzione primaria della tecnologia dell’informazione come strumento per il raggiungimento degli obiettivi di competitività e di efficienza delle aziende e non come terreno di pura speculazione finanziaria, significa restituire uno scopo più alto al lavoro di migliaia di addetti del settore. Riaffermare il valore della conoscenza e dell’esperienza come fattori decisivi nella costruzione del valore dei prodotti e dei servizi, significa anche sostenere il peso determinante della componente culturale e umana all’interno delle soluzioni informatiche. Esaltare la componente di “non-ware” (né hardware, né software, ma un insieme di esperienza, cultura, intelligenza e valori etici) significa anche dare una grande opportunità all’economia nostro paese che dispone di giacimenti ricchissimi di questa nuova materia prima.
La rottura dell’incantesimo
Qualsiasi prodotto o servizio promette una visione o meglio un sogno al proprio compratore: un bucato più bianco, un viaggio più sicuro, un fisico più sano, una vecchiaia più serena.
L’informatica, fin dal suo nascere ha amplificato enormemente questo meccanismo di promessa alterando le due dimensioni del tempo e del beneficio in modo esponenziale: ottieni in brevissimo tempo molto di più e a costi sempre più bassi.
La promessa è diventata via via così fantastica da assumere quasi un alone di magia (“il mago del computer”) e di ricchezza fiabesca: Cenerentola diventa principessa e l’occhialuto studente di Seattle diventa ipermiliardario.
Quando gli scandali finanziari hanno colpito non solo le aziende tradizionali ma anche il settore tecnologico e della new economy, si è rotto un incantesimo ed è iniziato un processo di caduta della credibilità che ha fatto dire a molti “sì però anche loro sono dei furbastri che si arrabattano, se truccano i bilanci figuriamoci che bidoni ci rifilano poi nei prodotti…”
E’ stato un colpo gravissimo per tutti, per i risparmiatori, per le aziende, soprattutto quelle sane, per migliaia di lavoratori del settore che sono passati da una condizione di quasi privilegio alla espulsione dal sistema.
È giusto ammettere: “Ebbene sì anche noi siamo come tutti gli altri!” oppure dobbiamo dire “Gli scandali fanno pulizia di quelli che hanno cercato di approfittare di un momento e l’informatica deve tornare ad essere promessa di futuro alle aziende”?.
Il doping in Economia
Tra le tante bugie dette in questi anni, credo che la più grave sia stata quella di affermare che la “new-economy” non solo cambiava le regole del gioco ma cambiava un assetto fondamentale della vita delle imprese: la crescita non era più funzione di un ciclo naturale e fisiologico espresso in percentuali ad una cifra anno su anno, ma il raddoppio era il minimo accettabile.
Non si è tenuto conto del fatto che in un mercato nuovo e in crescita è possibile e anche fisiologico avere tassi di crescita straordinari, ma la fisiologia porta poi naturalmente a valori più equilibrati. È come se, osservando i nostri figli crescere in modo fantastico nei primi mesi di vita, pretendessimo un eguale e costante tasso di crescita: se così fosse avremmo bambini che a 4 anni sarebbero alti 2 metri!
Ovviamente nessuno ha avuto il coraggio di dire che tassi di crescita fisiologici erano più che giustificabili in condizioni “normali” e che non esistono solo i fattori di reddito e crescita per misurare le aziende e la bontà di un investimento, per cui alle prime difficoltà si è ricorsi al “doping”.
Bilanci creativi, capitalizzazioni discutibili, attualizzazioni di ricavi sono diventati il nandrolone, l’epa e gli steroidi delle aziende.
Ma quando l’eccezione diventa la regola, come abbiamo visto nel ciclismo, il risultato non è solo la “tragedia” di un atleta è una grave macchia che danneggia l’intero comparto e porta con sè un effetto boomerang devastante: la disaffezione del pubblico.
La diversità necessaria
L’informatica ha bisogno più di altri settori di stabilire un rapporto fiduciario e di “promessa”, un bisogno fisiologico: l’informatica non è infatti una scienza (altrimenti tutto funzionerebbe e non ci sarebbe bisogno degli informatici) ma è piuttosto un’arte e l’arte ha bisogno dell’utopia.
Certo, le aziende di informatica stanno nel mercato, seguono le regole di base dell’economia ma, hanno bisogno di una speciale condizione per esistere: la capacità di guardare al futuro e di trainare gli altri settori.
L’informatica infatti, come dice Hammer, è “Il fattore abilitante” del cambiamento, senza tecnologia non è possibile operare cambiamenti strutturali nelle aziende e reingegnerizzarne i processi.
L’innovazione è la condizione di esistenza dell’informatica, e l’innovazione guarda necessariamente al futuro con ottimismo; se non esiste fiducia, se non esiste, sogno, se non esiste rischio, se non esiste volontà di creazione di un mondo nuovo non esiste nemmeno l’imprenditore.
In un bellissimo libro “La comunicazione people-oriented” (ed. Guarini e Associati 2002), Alberto de Martini, dice “La marca è un’ideologia costruita da una visione della realtà e dall’ambizione di modificarla”, e cioè afferma che l’impresa (o l’imprenditore) vede una “imperfezione” nel mondo e desidera creare un mondo migliore e la marca è la bandiera, l’ideologia che esprime questa missione.
Se questo è vero per un’azienda di scarpe come Nike (“Just do it”) allora è tanto più vero per un’azienda di informatica come HP (“invent”) per cui il cambiamento non è solo promessa è bensì la condizione di esistenza. Ma sull’altare della diversità non tutto può essere sacrificato, il prezzo da pagare non può essere la perdita di contatto con la realtà.
Il diritto alla normalità
Anche l’informatica ha diritto alla normalità, in fondo le aziende sono simili e sottostanno alle stesse regole e agli stessi condizionamenti del mercato.
Non c’è nulla di che vergognarsi nell’ammettere di essere normali, un venditore di informatica non è meglio di un venditore di surgelati solo perchè il suo prodotto (ma sarà vero?) ha un più alto contenuto tecnologico, e un softwarista non è detto che abbia un talento necessariamente maggiore di un carburatorista.
Se le aziende di informatica vogliono avere un futuro devono accettare la normalità dell’economica che implica ammettere cose che sappiamo ma che è scomodo accettare, del tipo:
– Gli utili non sono “utili” sono “indispensabili”
– L’etica è un valore del commercio
– I clienti vanno deliziati
– La concorrenza è feroce e perdere un cliente è un danno enorme
– Una buona idea è facile averla, farne un business è un lavoro duro
– Perdere oggi nella speranza di guadagnare domani porta le aziende al cimitero e così via
Le aziende clienti non sono tutte uguali, se lo fossero sarebbero frutto di una clonazione genetica, sono invece tutte diverse e per questo normali.
La omogeneizzazione è un bisogno dell’industria di massa, anche di quella del software pacchettizzato che risponde a una visione monopolistica e quindi a-normale del mercato, se una piccola azienda del bellunese fosse identica a quella del Baden Wuttenberg potrebbe tranquillamente usare lo stesso software ERP di concezione teutonica per il successo della relativa software house.
Accettare questa normalità porta a una “illuminazione” semplice: gli uomini e le loro aggregazioni, aziende o istituzioni che siano, sono “normalmente” lenti, “normalmente” hanno dei difetti, “normalmente” traggono dal loro ambiente linfa che non è solo economica, cioè cibo o denaro, è fatta anche di cultura e relazioni con altri uomini e donne altrettanto “normali”.
E’ questa normalità di emozioni e di valori che ci rende diversi dalle macchine e straordinariamente affascinanti.
Il potere del non-ware
Riscoprire l’umanesimo che sottende l’informatica non significa rinnegarne le origini ma anzi esaltarne l’essenza, tutti i grandi hacker nel senso più classico del termine hanno espresso forti valori etici fino a sintetizzare la loro motivazione personale nella formula di Wozniak: H=F3 Happiness= Food, Fun and Friends (felicità= cibo, divertimento e amici).
Se guardiamo all’evoluzione del peso economico delle componenti classiche dell’informatica è evidente il passaggio di valore dalle componenti fisiche a quelle più immateriali, dall’hardware al software per capirci. Ma il processo non è ancora concluso.
I monopolisti del software, ma non fanno eccezione quelli dei media o delle telecomunicazioni, sostengono che “la rivoluzione è finita”, il potere è passato dall’hardware al software e siamo nel migliore dei mondi possibili: “Dove vuoi andare oggi? Ti ci porto io!” con il sottinteso “Guai a te se ci vai con qualcun altro”.
Il prezzo da pagare a questo “migliore dei mondi possibili” è la omogeneizzazione linguistica e tecnico-culturale, la separazione della funzione creativa da quella esecutiva (io creo, tu usi, al massimo rivendi o “personalizzi”).
C’è però un altro insieme di elementi non catalogabili come hardware o software verso i quali lo spostamento di valore deve proseguire, sono, per citarne i principali, la conoscenza, l’esperienza, la cultura, la comprensione delle relazioni, la fiducia, i valori etici, un insieme che per comodità chiameremo “non-ware” che costituisce il fattore differenziante e di successo dei progetti informatici.
Riconoscere questo non-ware, ascoltare e condividere quello dei clienti, riportarlo all’interno dei sistemi ai quali gli utenti devono poi sedersi per svolgere il proprio lavoro significa generare un valore molto alto.
Significa mantenere ed esaltare una risorsa di cui il nostro paese dispone in giacimenti molto ricchi, le migliaia di imprese dell’informatica che sì sono piccole ma che sono ben radicate nel loro territorio e con solide relazioni con le imprese a cui forniscono i propri prodotti e servizi.
Per un paese povero di materie prime e di tecnologie come il nostro si tratta di una scelta di grande respiro che ci porta da un livello di sudditanza a un livello paritario in termini di generazione di valore.
I detrattori dell’open-source dicono che sia la morte del software perché in effetti ne mina le basi economiche di tipo proprietario, ma in realtà non vogliono vedere che l’open-source consente di valorizzare al massimo il nonware di cui nessuno potrà mai essere monopolista.